Il Blog di Andrea

Blog relativo al corso di Informatica Applicata al Giornalismo dell'Università di Parma

mercoledì 30 giugno 2010

In Piazza contro la legge bavaglio.



Questo è un momento molto delicato per la libertà di stampa nel nostro paese, e noi che seguiamo questo corso con "l'aspirazione" di diventare un giorno dei giornalisti, o comunque di lavorare nel mondo della comunicazione, dobbiamo assolutamente interessarci molto di più a queste tematiche....

Articolo tratto da La Stampa del 30 giugno 2010 a cura di Giuseppe Bottero:

Una maratona di otto ore per dire no alla legge sulle intercettazioni. Il mondo del Web unisce le forze e, in occasione della manifestazione nazionale promossa dalla Fnsi per la libertà di stampa, lancia “Libera rete”, un evento online per presentare «a rete unificata» il ruolo di denuncia di Internet e delle micro web tv italiane. Nel programma realizzato dalle televisioni virtuali, in onda anche su la Stampa.it, saranno trasmesse le inchieste più significative realizzate da blogger e citizen journalist.

«L'esigenza di creare la maratona su tante piattaforme digitali nasce dal fatto che centinaia di micro web tv, portali iperlocali, blog e videoblog quotidianamnete raccontano ciò che accade sottocasa- dice Giampaolo Colletti, fondatore dell'osservatorio interuniversitario Altratv.tv e organizzatore dell’evento-. Se teletrasmettessero a rete unificata queste piattaforme create da cittadini, videomaker per passione, raggiungerebbero quasi 400mila utenti unici al mese, una bella platea».

Giovedì 1 luglio sugli schermi di centinaia di siti web saranno trasmessi i reportage girati nei vicoli di Scampia e nei campi rom strangolati dalla criminalità organizzata, le inchieste sui pericoli ambientali nel sud del Paese e sulla corsa ad ostacoli per guadagnarsi il diritto al permesso di soggiorno. “Libera rete”, nell’intenzione degli organizzatori, porterà all’attenzione del pubblico anche una proposta concreta: la compartecipazione delle imprese tlc ai costi delle intercettazioni come, spiegano «già avviene in altri Paesi Europei».

Alla maratona- l’inizio è programmato per il 17- parteciperanno anche magistrati e giornalisti stranieri, collegati via Skype. «Il rischio del ddl intercettazioni è che questi racconti online geolocalizzati possano subire un forte rallentamento, se non addirittura un imbavagliamento. Si parla tanto di libertà di informazione- spiega Colletti-. Ebbene, il rischio che venga meno è ancora più forte per la rete. Le micro web tv italiane sono spesso lo specchio di ciò che accade nel nostro Paese, una finestra informativa glocal da tutelare assolutamente».

Anche il Comitato per la libertà e il diritto all'informazione e alla conoscenza si è mobilitato e partecipa, con questo messaggio: "Contro i tagli e i bavagli alla conoscenza e alla cultura, no al Ddl intercettazioni, no al silenzio di Stato. Il 1° luglio 2010 a Roma, dalle ore 17, in piazza Navona. Una grande mobilitazione per dire no al disegno di legge Alfano, che ostacola il lavoro di magistrati e giornalisti e rende i cittadini meno sicuri e meno informati; per dire no ai tagli alla cultura italiana previsti dalla manovra economica. Una manifestazione per far sentire che non può essere sottratto al Paese il racconto di vicende giudiziarie di rilievo pubblico, pur nel rispetto del diritto delle persone alla riservatezza; per respingere gli interventi punitivi ai danni della produzione culturale e salvaguardare il diritto dei cittadini alla conoscenza; per contrastare il pericolo di chiusura di testate giornalistiche colpite dall’indiscriminata riduzione dei fondi pubblici; per tenere accese le luci dei media sul mondo del lavoro e sui drammatici effetti della crisi. Un’iniziativa a difesa della Costituzione, per dare voce ai tanti soggetti e temi che rischiano l’oscuramento".

martedì 29 giugno 2010

Google vuole restare in Cina?


Un interessante articolo su come Big G, dopo aver fatto la voce grossa con il governo cinese, sia pronto a tornare sui propri passi... Google ha provato a puntare sull'etica, ma il business è un richiamo troppo forte.

Articolo tratto da Repubblica.it del 29 giugno 2010:

Lo scontro tra Google e il governo di Pechino sulla censura rischia di concludersi tra meno di ventiquattro ore con la scomparsa del motore di ricerca dal territorio cinese. In quello che sembra un estremo tentativo di scendere a patti con il regime senza rinnegare le prese di posizione sulla libertà degli internauti, l'azienda di Mountain View ha annunciato questa notte di aver cambiato il comportamento della sua homepage cinese.

Fino a oggi, chi si collegava all'indirizzo www.google.cn veniva reindirizzato automaticamente alla homepage di Google Hong Kong. Con questo sistema, Google riusciva a fornire il suo servizio agli utenti cinesi senza adempiere ai filtraggi dei risultati imposti dal governo cinese. Un metodo che le autorità di Pechino hanno fatto sapere a più riprese di non gradire, minacciando di non rinnovare la concessione, in scadenza il 30 giugno, che permette a Google di operare in territorio cinese.

In un post pubblicato questa notte sul blog ufficiale di Google, l'azienda di Mountain View ha annunciato di aver posto fine al reindirizzamento automatico, nella speranza che questo basti a placare le ire di Pechino. Da oggi, chi si collega a Google.cn ha la possibilità di accedere direttamente a un numero limitato di servizi, come le traduzioni o la ricerca di brani musicali, sui quali non è imposto alcun filtro. Un link a fondo pagina consiglierà agli utenti di andare su Google.com.hk per tutto il resto. "Questo approccio", si augura David Drummond, capo dei legali di Google, "ci permette di mantenere il nostro proposito di non censurare i risultati su Google.cn e di obbedire, allo stesso tempo, alla legge cinese".

Ma gli analisti sono scettici sul fatto che questa mossa basti a placare le ire di Pechino. Per ora, un portavoce del ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, ha confermato che la questione della licenza per Google sarà affrontatà dalle autorità competenti: "Le compagnie straniere", ha ribadito, "devono operare rispettando la legge cinese".

Il clima tra Google e Pechino è teso dallo scorso gennaio quando, in seguito a una serie di attacchi condotti da hacker cinesi, l'azienda di Mountain View annunciò la volontà di non ubbidire più alle richieste censorie del regime, minacciando di abbandonare il paese.

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Post Fotografico: David Doubillet.



Chi di voi non ha mai sfogliato un National Geographic senza rimanere incantato in quelle stupende fotografie. Un esplosione di colori, inquadrature e soggetti affascinanti in cui immergersi e di cui ogni dettaglio. Lo ammetto, la fotografia mi affascina davvero tanto, ed oltre ad essere un'arte a tutti gli effetti, è anche un'efficacissima forma di comunicazione. Qualcuno una volta ha detto che un'immagine vale più di mille parole (sic!)...

Da National Geographic una collana inedita dedicata ai grandi fotografi. Autori di immagini conosciute in tutto il mondo, viaggiatori instancabili, artisti che non dimenticano che il loro primo compito è quello di comunicare la realtà. I grandi maestri della fotografia sono in grado di rappresentare in pochi scatti una storia intera: la gioia o il dolore di un uomo, la bellezza della natura o il suo degrado, le tragedie della guerra o le durezze della vita quotidiana.

In questi libri la fotografia dispiega tutta la sua forza: la capacità di raccontare il nostro mondo come altri media non riescano a fare. E magari anche di migliorarlo un poco.

David Doubilet è un fotografo, subacqueo, che ha introdotto la tecnica dell'Over/Under nella fotografia subacquea statunitense. Nacque nel 1946 a New York e iniziò a scattare foto subacquee all'età di 12 anni. I suoi primi lavori furono eseguiti con una Brownie Hawkeye protetta dall'acqua da una sacca di gomma. Quasi per caso inventò la tecnica dell'Over/Under, utilizzando particolari filtri con punti di fuoco separati.

Con il National Geographic realizza il libro Australia’s Great Barrier Reef, un reportage fotografico sulla barriera corallina australiana. Ha ricevuto negli anni svariati riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il The Explorers Club's Lowell Thomas Awards e il Lennart Nilsson Award nel 2001 per la fotografia scientifica.











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lunedì 28 giugno 2010

Anche Sky contro la legge bavaglio..



Intervista a Emilio Carelli direttore di Skytg24, telegiornale che personalmente ritengo uno dei migliori in italia. Fa piacere sapere che almeno Sky ha deciso di aderire esplicitamente alla campagna contro l'approvazione della legge bavaglio da parte del governo. Sinceramente, se dipendesse da me, scambierei volentieri i canali mettendo skytg24 al posto di Raiuno, e il Minzolini sul satellite... non si sa mai che qualcuno potrebbe aprire gli occhi...

Da il Fatto Quotidiano.it del 28 Giugno 2010 di Lorenzo Galeazzi:

Procede a pieno regime la preparazione della protesta del primo luglio, quando da undici piazze italiane, rinominate “presidi della libertà”, la società civile dirà il suo no al ddl intercettazioni. Assieme a loro ci saranno anche i giornali e le testate che in questi mesi hanno dato battaglia, compreso ovviamente Il Fatto Quotidiano e ilfattoquotidiano.it.

Nel frattempo l’amministratore delegato di Sky Italia, Tom Mockridge, è intervenuto pesantemente contro la legge bavaglio annunciando che si opporrà con tutte le forze all’approvazione del ddl. E se Emilio Carelli, direttore di Sky Tg 24, “dovesse finire in carcere per questo – dice l’editore – Io andrò insieme a lui”. Ilfattoquotidiano.it ha raggiunto Carelli al telefono. E a sorpresa ha però scoperto che il direttore del miglior Tg d’Italia, pur essendo disposto a battersi contro l’approvazione della legge, è molto più prudente del suo editore.

Direttore, tocchiamo ferro, ma Mockridge ha detto che sei lei dovesse finire dentro per aver violato la legge bavaglio, la seguirebbe in cella.

Voglio ringraziarlo pubblicamente per queste parole e per la sua solidarietà. L’ho anche chiamato prima per dirglielo. Stiamo portando avanti assieme questa importante battaglia.

Fino a dove è disposto ad arrivare per continuare a dare le notizie?

Io penso che non si debba mai violare la legge, anche se faremo di tutto per continuare a dare le notizie.

E nel caso non avesse scelta?

Questa è una decisione delicata che prenderemo di comune accordo con l’editore e che valuteremo caso per caso. Sicuramente di fronte a fatti importanti come notizie di mafia, di terrorismo o di corruzione, non siamo disposti a fermarci .

Chi vuole questa legge agita il diritto alla privacy dei cittadini. Al Fatto siamo però convinti che sia solo un pretesto per limitare il lavoro della magistratura e della stampa nel reprimere e denunciare il malaffare. Lei la pensa come noi?

La privacy è un diritto sacrosanto che in Italia è ampiamente tutelato. Purtroppo in questi ultimi anni ci sono stati colleghi giornalisti che hanno esagerato nella pubblicazione di pezzi che non contenevano notizie, ma solo aspetti piccanti della vita privata di vari personaggi. E questi sono abusi da biasimare. In questo contesto la difesa della privacy è diventato un pretesto. Ma c’è da dire che qualche collega ha offerto al Governo questo pretesto.

A chi si riferisce?

In questi ultimi due anni si è inutilmente violato il diritto alla privacy dei cittadini. E questo abuso oggi noi tutti lo paghiamo con una legge come questa.

Mi fa qualche esempio?

Esempi non ne voglio fare. Ma mi riferisco però a quei casi in cui si sono riportati fatti inerenti alla vita sessuale di personaggi, quando questi non avevano nessuna attinenza con dei reati o con delle notizie di reati.

Lo faccio io un esempio. L’intervista di Annozero a Patrizia D’Addario, andata in onda il primo ottobre scorso, l’avrebbe trasmessa?

Noi siamo stati il primo giornale a intervistare la D’Addario. Lo abbiamo fatto in tempi non sospetti, nel pieno dell’inchiesta e molti mesi prima di Santoro. E non lo abbiamo fatto dandole uno spazio così ampio. Sky Tg 24 le ha fatto un’intervista giornalistica di pochi minuti legata alle ipotesi di reato e di corruzione. Solamente questo. Non abbiamo fatto un’intervista per sfrugugliare fra le lenzuola della gente.

La legge bavaglio è stata duramente criticata anche dalle toghe.

C’è un problema di fondo: il rapporto non risolto fra politica e magistratura. L’abolizione dell’immunità parlamentare ha fatto sì che questo equilibrio si sia sbilanciato. So che è impopolare dire queste cose, ma in passato alcuni magistrati se ne sono approfittati. Dall’altra parte questa legge prevede norme che disinneschi e riduca il potere della magistratura. Io auspico che si torni a un equilibrio dei due poteri.

A proposito di giustizia il commissario europeo Viviane Reding ha bocciato il ddl dicendo che verificherà la compatibilità del testo di questa legge con le norme comunitarie. Che ruolo può avere Bruxelles in questa partita?

Sta agli stati sovrani decidere in queste materie. Ma l’Europa può avere un ruolo a livello di pressione e di sensibilizzazione. Noi di Sky abbiamo già annunciato che in caso di approvazione, se rimarranno delle norme molto restrittive, faremo ricorso a tutte le autorità competenti, sia italiane che europee: dal Parlamento alla Commissione, fino alla Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo.

Noi del Fatto siamo convinti che, nel caso la legge bavaglio diventi operativa, Internet rimarrebbe l’unico strumento per continuare a dare le notizie.

So bene che, almeno in teoria, con un dominio registrato all’estero, si possono scavalcare queste norme. Ma mi permetta di dire che è estremamente triste solo pensare che un giornalista italiano si debba trasformare in una sorta di carbonaro e pubblicare dall’estero notizie che riguardano l’Italia. Il tutto per non subire le conseguenze di questa legge. Spero proprio che non saremo obbligati a utilizzare questi mezzi.

Che aria c’è nella sua redazione? Cosa dicono i suoi cronisti di politica su eventuali modifiche e tempi di approvazione?

Stiamo aspettando di vedere se si va dopo l’estate. Sembra che la mobilitazione di tanti giornali e dell’opinione pubblica sia riuscita a sollevare il problema e a introdurre la possibilità di qualche cambiamento. Se così fosse il ddl dovrà necessariamente tornare al Senato per un’altra lettura.

Nel frattempo il primo luglio c’è la manifestazione contro il ddl cui abbiamo aderito noi, il sindacato dei giornalisti e tante altre altre testate.

Naturalmente ci sarà anche Sky.

Comando e Controllo



Un documentario che in parte svela quanto sia grande il potere che deriva da un uso "mirato" e "selettivo" della comunicazione... il potere di fare apparire le cose in un modo piuttosto che un altro...

Articolo tratto da L'Espresso del 21 Giugno 2010 di Mauro Munafò:

Il documentario "Comando e Controllo", scritto e diretto dal giornalista Alberto Puliafito e prodotto da Fulvio Nebbia, dimostra uesta teoria attraverso un complesso lavoro di inchiesta, portando le telecamere dove la propaganda fatta dai telegiornali non è voluta arrivare.

Dopo aver vissuto all'Aquila per otto mesi, prima in tenda e poi ospite di una famiglia del luogo, Puliafito racconta con il suo lavoro quello che la maggior parte degli italiani non ha mai visto del caso abruzzese: tendopoli inaccessibili ai giornalisti, la Protezione civile che comanda e controlla in deroga a ogni regola, la ricostruzione della città mai avviata e la costruzione di prefabbricati lontani dal centro urbano che invece è stata eseguita in poco tempo. Una serie di eventi contraddittori ignorati dalla maggior parte dei grandi media che hanno preferito fare da grancassa a un'informazione controllata e asservita alla versione ufficiale dei fatti.

"Comando e controllo" diventa così uno strumento indispensabile per capire le proteste nate dal basso in Abruzzo, il popolo della carriole e gli altri movimenti, non di rado etichettati come "ingrati" nei confronti delle istituzioni che hanno dato loro un tetto. L'inchiesta di Puliafito spiega nel dettaglio l'esproprio patito dalla popolazione aquilana, costretta a subire le decisioni dall'alto e a trovarsi sbattuta fuori dal suo centro storico, dispersa nella periferia e in nuovi nuclei residenziali completamente esclusi dal tessuto sociale.

Il potere che deriva dallo "stato di emergenza" permette di gestire appalti in maniera straordinaria, giustificando tutto con la scusa dell'urgenza e senza dover rispettare le procedure ordinarie. Gli ingenti soldi della ricostruzione finiscono nelle tasche dei soliti noti e le inchieste giudiziarie degli ultimi mesi sono lì a dimostrarlo.

"Questa però non è una storia che riguarda solo l'Aquila", spiegano gli autori: "La storia di un modello di gestione del potere autoritario, ma dal volto gentile che si sta imponendo in Italia. Un potere che può agire in deroga alle leggi dello Stato per un terremoto così come per il Campionato Mondiale di Nuoto, per le emergenze e per i grandi eventi, dietro ai quali girano una montagna di soldi e interessi. Un potere assoluto, com'è stato definito, che sta rapidamente e silenziosamente erodendo spazi importanti di democrazia".

Per vedere questo documentario è possibile partecipare a una delle tante proiezioni pubbliche che lo vedono protagonista. Martedì 22 giugno una proiezione alla sala Unicef di via Palestro a Roma è stata organizzata dall'associazione "La questione morale". Per gli altri appuntamenti è possibile invece consultare il sito ufficiale del documentario.






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"Mi piace essere il campione italiano della bugia"




Pubblico questa interessante intervista presa dall'ottimo sito Italia Dall'estero, a Tommaso DeBenedetti, giornalista free lance salito alle cronache per essersi inventato interviste a personaggi di fama internazionale come scrittori e importanti premi Nobel. Da questa intervista realizzata dal quotidiano spagnolo El Paìs emerge un quadro abbastanza inquietante del sistema editoriale italiano.

P.S. Non mi ricordo di aver visto pubblicate su quotidiani italiani interviste all'individuo in questione dopo che il fatto era uscito allo scoperto.

[El País]

Non c’erano solo premi Nobel per la letteratura, illustri scrittori e autori di best seller. Anche il Dalai Lama, Lech Walesa, Michail Gorbaciov, Elie Wiesel, Noam Chomsky e Joseph Ratzinger, poco prima che iniziasse nel 2005 il conclave che lo elesse Papa, sono stati intervistati dalla fantasia di Tommaso Debenedetti.

La lista delle interviste false del freelance italiano continua a crescere. L’ufficio di rassegna stampa del Parlamento ha pubblicato un archivio su internet, e ci sono già 79 pezzi, anche se non tutti sono interviste, visto che Debenedetti è stato anche per alcuni mesi vaticanista dello scomparso L’Indipendente.

Nella lista si legge che una delle sue ultime vittime è stato il drammaturgo Derek Walcott. Debenedetti lo ha presentato terrorizzato all’altro capo del telefono il giorno del terremoto ad Haiti. Poco dopo Philip Roth ha scoperto il grande imbroglio. La giornalista di Repubblica Paola Zanuttini gli ha chiesto della sua presunta perdita di fiducia in Obama, e Roth ha negato di averlo mai detto, di aver parlato con Libero e di conoscere Debenedetti.

Ora l’inventore di interviste ha deciso di concederne una a questo giornale. Lo aveva già fatto con Malcom Pagani, giornalista de Il Fatto Quotidiano. All’epoca aveva mantenuto la versione secondo cui alcune interviste erano reali e che avrebbe avuto anche i nastri che lo provavano. Adesso Debenedetti confessa che era tutto falso. O, più esattamente, un gioco. “La mia idea era di essere un giornalista di cultura serio e autorevole, ma questo in Italia è impossibile”, spiega. “L’informazione in questo paese è basata sulla falsificazione. Tutto passa finché è aderente alla linea editoriale, finché quello che parla è uno dei nostri. Io mi sono semplicemente prestato a questo gioco per poter pubblicare, e ho giocato fino in fondo per denunciare lo stato delle cose”.

Nato a Roma nel 1969, sposato e padre di due figli, insegnante di italiano e storia in un istituto pubblico della capitale, figlio e nipote di illustri critici letterari (Antonio e Giacomo), Debenedetti si dichiara “soddisfatto” del lavoro fatto. “Mi piace essere il campione italiano della bugia. Credo di aver inventato un genere nuovo e spero di poter pubblicare altri falsi nel mio web, e la rassegna in un libro. Naturalmente con prefazione di Philip Roth”.

Dopo averci dato appuntamento nella rumorosa piazza Barberini, Debenedetti arriva puntuale (anche se il suo orologio segna un’ora in meno) insieme al suo bebè di tre mesi. Mostra un atteggiamento cordiale e intelligente, porta una kippah sul capo e assomiglia un po’ all’attore Roberto Benigni. Per un’ora l’impostore racconta la sua verità. Senza rancore e con tanto humor quanto presenza di spirito.

Domanda. Lei è o no giornalista?
Risposta. Ho studiato storia e letteratura italiana, e dopo ho iniziato a lavorare come giornalista freelance. Ho il tesserino di pubblicista (collaboratore di stampa) dal 1998. Quello di giornalista non l’ho potuto ottenere perché in Italia bisogna avere due anni consecutivi di contratto con un giornale. Nel 1994 ho iniziato a scrivere critiche e interviste a scrittori italiani.

D. Vere?
R. Assolutamente. Le facevo per telefono e anche di persona. Ne feci una alla scrittrice Dacia Maraini e ad altri autori locali. Dopo è successa una cosa: improvvisamente ho capito che qualcosa non funzionava nella stampa italiana.

D. Cioè?
R. Io volevo lavorare onestamente come redattore di cultura, ma non avevo spazio. Andavo alle conferenze stampa, ma nessuno mi concedeva interviste. Offrivo critiche e rassegne di spettacoli, ma mi rispondevano sempre “questo lo copriamo già con i nostri redattori”. E così cambiai metodo.

D. E ha iniziato con i falsi?
R. La tecnica consisteva nel rivolgersi a piccoli giornali di provincia. Non pagavano molto, ma compravano tutto.

D. Quando ha scritto il primo?
R. Nel 2000, mi pare fosse Gore Vidal. Era accessibile, presentava il suo libro Palinsesto, parla italiano e viveva a Ravello, vicino a Napoli… Mi sono detto “la faccio”, l’ho fatta ed è uscita ne La Nazione (di Firenze), Il Giorno (di Milano) e Il Resto del Carlino (varie provincie).

D. Ma l’ha fatta davvero?
R. No, Gore Vidal non riceveva nessuno. Ma l’intervista piacque e il capo della redazione cultura de La Nazione mi disse: “Adesso non possiamo abbassarci di livello”. Iniziai a offrirne ad altri giornali. Il Mattino di Napoli me ne comprò diverse. Mi resi conto che quello che interessava non era la cultura ma i grandi nomi, lo spettacolo, le stelle. Non pagavano quasi niente, ma io volevo scrivere e non mi interessavano i soldi. Così ho iniziato a giocare. La verità è che mi sono divertito moltissimo durante questi dieci anni.

D. Vivendo di questo imbroglio…
R. Sì. Era appassionante. Il mattino ero insegnante, nel pomeriggio parlavo con gente come Arthur Miller, Roth, Gorbachov o il Papa. Li facevo raccontare la loro vita intera e i pezzi si pubblicavano, a volte mettevano un richiamo in prima pagina e questo soddisfaceva la mia vanità. Anche se mi pagavano solo 30 euro, a volte niente, e non mi ringraziavano mai per le mie esclusive. Questo dimostra che era tutto un gioco. Tutti lo sapevano. Solo che recitavano come se non fossero state invenzioni: “Abbiamo lo scoop? L’esclusiva? La diamo e se ci scoprono non è colpa nostra ma del freelance”.

D. Quindi i giornali sapevano che erano falsi?
R. Certo, ma il meccanismo gli conveniva. Tutti sanno che gli autori danno interviste per promuovere i loro libri. Le mie interviste andavano più in là, erano quasi sempre politiche. Gli davo un orientamento di destra. Mi divertiva e sapevo che quei giornali volevano quello. “Sarebbe bene che parlasse male di Obama”, “Fallo parlar bene di Berlusconi”. Io obbedivo.

D. Alcuni blogger italiani dicono che ha ordito un complotto politico a favore di Berlusconi, facendo sembrare di destra gente di sinistra.
R. La destra ha un gran complesso di inferiorità culturale e allo stesso tempo si impaurisce di fronte ai grandi nomi. Io sono contento di diffondere questo messaggio. L’Italia è un paese comico, fra l’assurdo di Ionesco e i sogni di Calderón.

D. E Derek Walcott terrorizzato il giorno del terremoto di Haiti?
R. Chi poteva pensare che fosse la verità? Un freelance italiano lo chiama a Santa Lucia, racconta che ha sentito il tremore e che ha dovuto mettersi sotto il tavolo. Parlo dell’Omero dei Caraibi che si dispera per Haiti. Quel giorno mi hanno chiamato da La Nazione e mi hanno detto “Grazie, dottor Debenedetti, è la notizia del giorno”. Un microscopico giornale di provincia che ha questa esclusiva mondiale? E non le sembra strano?

D. Ha anche ingannato giornali nazionali, come Libero.
R. Con La Repubblica, Il Corriere o La Stampa non ho provato, perché sapevo che non avrebbe funzionato. Loro verificano, hanno le capacità per farlo. Decisi di provare con Libero per la sua fedeltà a Berlusconi. Chiamai il capo della redazione cultura per offrirgli John Le Carré. L’uomo ha fatto le sue chiamate, vai a sapere a chi, e mi dice di sì. Glielo mando e lo pubblicano. Dopo gli vendo Roth. Le Carrè scrive della guerra fredda, di spie, di cose così; Roth è un uomo di sinistra. Questo è un dilemma per Libero. Chiedergli di parlare di Berlusconi è troppo? Mi dissero: “Fagli dire qualcosa di forte contro i Nobel, ma che non dica niente contro la nostra linea editoriale”.

D. Ha fatto nove interviste allo scrittore israeliano Abraham Yeoshua e cinque a Roth. Perché erano i suoi favoriti?
R. Yeoshua perché Israele e il Medio Oriente in Italia si vendono molto bene. E Roth perché mi sono inventato il suo appoggio a Obama prima ancora che glielo desse, quando non si era ancora presentato alle primarie. Quella intervista venne citata dal Messaggero. Così ho pensato che non sarebbe sembrato strano che dopo un po’ di tempo si fosse mostrato deluso da Obama. Di fatto a nessuno è parso strano, tranne che a lui stesso e alla giornalista di Repubblica che glielo ha domandato.

D. Dieci anni di mitomania sono molti. Nessuno se ne è accorto prima?
R. Nel 2006, prima delle elezioni, ho fatto dire a John Le Carrè che avrebbe votato Berlusconi. L’intervista falsa venne citata dal Corriere, Le Carré si arrabbiò molto e smentì su The Guardian. La Repubblica riprese la notizia, ma nessuno ci fece caso. Fu un primo avviso, ma non accadde nulla.

D. Non temeva di essere scoperto e querelato?
R. Io mi limitavo a continuare questo gioco comico e tragico insieme. La falsificazione e il settarismo sono gli elementi di base dell’informazione italiana. Soprattutto nella stampa berlusconiana, ma non solo. Tutto si fonda su Berlusconi. O sei amico o nemico. Le notizie, le interviste, le dichiarazioni e la censura si decidono con questo criterio. È un sistema tendenzioso che colpisce per l’assenza di controllo. Se fossi un freelance spagnolo e chiamassi questi giornali offrendo un’intervista con Almudena Grandes, la pubblicherebbero senza controllo.

D. A proposito, quali sono state le sue vittime latinoamericane e spagnole?
R. Qualche anno fa ho intervistato Mario Vargas Llosa, dopo averlo visto ad una conferenza a Roma, Laura Perez Esquivel e Vazquez Montalban. Questa intervista è citata in un sito su Andrea Camilleri perché l’ho fatto parlare molto bene di lui. Quando tutto è venuto alla luce ero sul punto di fare una grande intervista a Garcia Marquez in cui gli avrei fatto rinnegare Obama.

D. Ha fatto tutto questo per una specie di vendetta contro la sua famiglia?
R. Lei ha parlato di Freud nell’articolo che ha scritto su di me. Può darsi che c’entri qualcosa, anche se credo che la relazione con mio padre non abbia influito. Lui non mi ha aiutato a diventare giornalista (Antonio Debenedetti è una firma de Il Corriere della Sera), ma la nostra relazione si è rotta per motivi strettamente familiari. So che è molto dispiaciuto e questo mi turba perché provo affetto per lui. Mio nonno Giacomo è sempre stato un modello per me, era il mio grande punto di riferimento letterario. Mi sarebbe piaciuto essere come lui. Forse questo è stato un modo freudiano per evitare il confronto. Ma era anche l’unica maniera di farlo essendo pubblicista. Era come farmi un giornale da solo, ma sotto gli occhi di tutti; facevo editoriali politici sotto forma di interviste, anche se molte volte non riflettevano le mie idee; firmavo la critica letteraria che non mi lasciavano firmare.

D. Quali sono stati i suoi migliori colpi?
R. Mi ha divertito che un’intervista del 2003 con Nagib Mahfuz, autore egiziano, sia stata ripubblicata da France Soir e da vari giornali egiziani senza che nessuno se ne rendesse conto. Mi ha divertito dare ai gatti di Banana Yoshimoto i nomi dei miei gatti, Dada e Kiko. Mi ha divertito moltissimo intervistare Ratzinger poco prima del conclave indovinando che fosse papabile, e che L’Independente abbia pubblicato un’altra volta il pezzo due giorni dopo come “l’ultima intervista prima di diventare Papa”.

D. Che tecnica usava per imitale il linguaggio? Leggeva libri, copiava da altre interviste?
R. Leggevo i libri e cercavo di captare la loro forma di espressione e il loro mondo. A volte inserivo dettagli dell’ambiente, Coelho, Follet, Yoshimoto, Walcott.

D. Le dispiace che alcuni scrittori abbiano detto che non si riconoscevano nelle sue interviste?
R. Questo è ciò che più mi ha dato fastidio. E che Roth abbia detto che la mia carriera è finita; lo so, ma non c’è neanche bisogno che lo dica lui, che è uno scrittore di fama mondiale. La mia carriera nei giornali probabilmente è terminata, ma il mio lavoro no. Chissà che non scriva nuove interviste sotto pseudonimo in un giornale di ampia tiratura? E creerò una pagina web dove metterò i nuovi falsi. Credo che sia un genere nuovo e mi piacerebbe pubblicare la collezione in un libro. Naturalmente con una prefazione di Roth, vedremo se vera o falsa. Mi piacerebbe anche andare a vedere Hertha Muller, farle tre o quattro domande e vedere come reagisce l’autrice vera.

D. Alcuni lettori de The New Yorker le imputano il fatto che attribuire a gente come Gunther Grass o Roth opinioni contrarie a Obama sia un atto di violenza.
R. Mi dispiace che lo dicano. A Grass ho fatto dire cose a favore degli immigrati, contro Berlusconi. Non credo di aver mai creato violenza.

D. John Grisham ha dichiarato che la querelerà.
R. Non so ancora nulla. Possono fare ciò che vogliono. Io sono stato trasparente e non ho ottenuto alcun vantaggio da questo. Non mi sono arricchito, non mi sono mai preoccupato di farmi pagare i pezzi. Una volta mia madre mi ha chiamato dicendomi che era arrivato il pagamento de La Nazione: 40 euro per tre interviste. Continuo ad essere sconosciuto, o quasi. In Italia quasi nessuno parla del mio caso perché si dovrebbe indagare sulla farsa dell’informazione.

D. Vuole approfittarne per chiedere scusa ai suoi intervistati?
R. Mi piacerebbe incontrarmi con loro. A volte mi sono sbagliato nel riflettere i loro pensieri, per fretta o per incapacità. Ne chiedo scusa. Ho visto che Roth ha detto che non lo stupirebbe che in Italia mi trasformassero in un eroe. Mi piacerebbe dirgli una cosa: “Caro Roth, lei non conosce l’Italia”. Qui diventa eroe solo chi va col vento, mai chi critica il sistema o si diverte dicendo la verità. Non sarò mai un eroe, ma continuerò a dire la verità. E so bene che questo suona strano, detto da me.

Articolo tradotto

Articolo originale

domenica 27 giugno 2010

Kit Anti-Censura da Reporters sans Frontières.




Articolo di Alessandro Verani sul Fatto Quotidiano del 26 giugno 2010:

PARIGI – L’idea è venuta dopo gli arresti a raffica di blogger durante le proteste in Iran. Senza contare i dissidenti cinesi pedinati, perseguitati, incarcerati per aver mandato una mail di troppo. Cosi’ è nato il kit per navigare «sicuri» su Internet. E in maniera del tutto anonima. E’ la nuova iniziativa di Reporters sans frontières a disposizione di dissidenti politici, giornalisti e blogger in Paesi a rischio, dove la censura è sempre in agguato. Obiettivo: inviare articoli, dati, racconti in presa diretta senza essere intercettati.

L’organizzazione internazionale, nata a Parigi per difendere la libertà di informazione, ha messo a punto il kit, dal nome «rifugio anticensura», assieme a una società, Xerobank, specializzata in sicurezza informatica, che ha sede a Panama. Questa assiste già banche, imprese e ambasciate per fornire loro connessioni a prova di interferenze e di attacchi informatici. Il nuovo servizio sarà fornito gratuitamente, in collaborazione con Reporters sans frontières. «Operiamo nel campo commerciale, ma possiamo permetterci anche qualche attività filantropica – ha sottolineato Bruno Delpeuc’h, responsabile per l’Europa di Xerobank -. Molti di noi hanno un passato da militanti in qualche associazione. Abbiamo conservato uno spirito libertario».

Il kit, basato su tecnologie sperimentate da Xerobank, permette di mandare mail e di consultare siti in maniera del tutto anonima. I dati inviati sono criptati. E, prima di raggiungere la destinazione finale, vengono fatti transitare attraverso vari routers negli Stati Uniti, in Canada e nei Paesi Bassi, per confondere le piste. Se il dissidente o il giornalista si trova a Parigi, potrà utilizzare direttamente alcuni computer «sicuri» nella sede di Reporters sans frontières (Rsf). Quando rientrerà a casa, potrà portare con sé una chiave Usb con il kit e un software speciale per la navigazione su Internet, che avviene attraverso la rete di Xerobank. Oppure sarà Reporters sans frontières a mandare il kit a chi ne avrà bisogno, «nella discrezione più assoluta», fanno sapere a Parigi, alla sede dell’organizzazione. Il sistema puo’ essere installato facilmente su uno smartphone. Xerobank e Rsf assicureranno pure un servizio di «refugee hosting», che permette a giornalisti e bloggers di creare siti al riparo dalla censura dei loro Paesi.

Queste persone aprono in generale un blog presso un server straniero, ma la loro situazione resta sempre precaria. Paesi come la Cina o l’Iran ingaggiano hackers che lanciano attacchi contro i server. E cosi’ questi decidono spesso di sbarazzarsi di tali clienti, troppo ingombranti, chiudendo il loro conto. Reporters sans frontières e Xerobank potranno ora aiutarli, assicurando loro rifugio in un server. Sempre in maniera molto discreta. Che è la chiave del successo di tutto il progetto

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L'onda

Dobbiamo stare attenti, perchè la storia molto spesso si ripete.



Trailer italiano di "L'onda" ("Die Welle"), il film tedesco diretto da Dennis Gansel, in competizione al Torino Film Festival 26. Basato su una storia vera.

sabato 26 giugno 2010

Google più vicina ai giornali: motore nostro, pubblicità a voi.




Ultimamente stanno venendo alla luce molte novità sulle imminenti attività di Google...

Articolo di Massimo Russo su Repubblica.it del 25 giugno 2010:

Google consentirà agli editori di vendere direttamente la pubblicità nelle pagine di alcuni servizi del motore che ospitino i loro articoli. La decisione per il momento riguarda i testi in lingua inglese presenti all'interno della piattaforma Fast Flip, ma l'iniziativa dovrebbe presto essere estesa anche ad altre lingue europee, italiano compreso. Interpellata in proposito, la società non conferma la notizia né fornisce date, ma riconosce che la vendita diretta della pubblicità da parte dei produttori di contenuto che accettano di pubblicarli su Google è un'opzione "che potrebbe essere considerata in futuro".

Si tratta di un terzo significativo segnale di disgelo nei rapporti tra l'azienda e i produttori di contenuti. Una decina di giorni fa Repubblica. it aveva rivelato
l'esistenza di Newspass, un progetto per realizzare un sistema di pagamento integrato con la ricerca da mettere a disposizione dei giornali. Quindi il Wall Street Journal ha raccontato che Google sta pensando anche alla realizzazione di un servizio per l'acquisto della musica, una sorta di iTunes del web. Entrambe le piattaforme dovrebbero funzionare non solo da pc, ma anche da tablet - iPad compreso - e da telefonino, ed essere compatibili con diversi sistemi operativi.

Adesso si apre uno scenario ulteriore: per la prima volta Google permetterà a quanti accettino di portare i propri contenuti sulla sua piattaforma di vendere direttamente la pubblicità per gli spazi che compaiono in quelle pagine. La notizia è confermata da diverse fonti esterne. Da parte sua, Google nega esistano date già fissate: "Abbiamo introdotto Fast Flip come esperimento", afferma un portavoce, "e stiamo ancora lavorando molto per migliorare il servizio. Sebbene ci auguriamo di essere in grado di portarlo fuori da Google Labs a un certo punto, non abbiamo alcun piano immediato in tale direzione e nemmeno abbiamo definito una scadenza. Il nostro focus è rendere il prodotto coinvolgente per gli utenti e interessante per gli editori". Ma è proprio sui ricavi che Google è più possibilista: "Stiamo studiando modalità per aiutare gli editori nostri partner a generare più fatturato", prosegue la fonte interpellata da Repubblica. it. "Non abbiamo alcun piano immediato di consentire a tutti i quasi cento partner attuali dell'esperimento di vendere direttamente la pubblicità che appare di fianco ai loro contenuti, anche se è un'opzione che potremmo considerare in futuro."


Per comprendere la portata del cambiamento è opportuno ricordare che fino a poche settimane fa la società fondata da Larry Page e Sergey Brin aveva custodito le informazioni riguardanti la raccolta pubblicitaria con cura paragonabile solo a quella impiegata per serbare i dettagli che rendono tanto efficace il proprio algoritmo di ricerca. Solo dopo un ricorso all'Antitrust italiano da parte della Fieg, l'organismo che rappresenta gli editori italiani di giornali, Google il mese scorso
ha accettato di rendere pubbliche le percentuali di ricavo condivise con i propri partner: 68% per gli annunci AdSense, correlati al contenuto degli articoli, 51% per le inserzioni associate alle pagine dei risultati del motore di ricerca.

La possibilità di vendita diretta degli spazi pubblicitari sarà riservata alle testate che accettino di pubblicare i propri contenuti su
Fast Flip. Lanciato in via sperimentale dai laboratori di ricerca di Mountain View nel settembre scorso, il servizio è oggi utilizzabile nelle versioni in inglese di Google news e consente non solo di vedere i titoli e un breve sommario delle fonti giornalistiche aggregate in riferimento a un fatto, ma anche di avere una riproduzione dell'intera pagina. Una sorta di fotogalleria degli articoli ordinabile per tema, notizia, o per sito. Fino ad oggi sono 92 le testate americane e inglesi che hanno accettato, dietro contratto, di prendere parte all'esperimento e che già percepiscono una quota dei ricavi derivanti dalle inserzioni pubblicate nelle pagine di Fast Flip. In futuro saranno gli stessi editori a poter affidare alle proprie concessionarie la vendita di quegli spazi, e dunque a monetizzare direttamente - al netto di un costo per il servizio - il traffico generato dai loro contenuti. La nuova politica di Google coinciderà con l'uscita di Fast Flip dalla fase sperimentale e con la sua trasformazione in un vero e proprio prodotto. A seguire saranno disponibili anche le versioni dello sfogliatore in altre lingue, anche se su questo non sono ancora disponibili tempi certi.

L'anno scorso Les Hinton, amministratore delegato di Dow Jones ed editore del Wall Street Journal, aveva chiamato Google "vampiro digitale", per i ricavi realizzati sfruttando contenuti che non produce. Dopo Newspass, anche Fast Flip sembra la conferma che il vampiro si è messo a dieta. Ora vuol provare a stabilire un rapporto più equilibrato con le altre specie che vivono nell'ecosistema digitale.

venerdì 25 giugno 2010

Guerra di CopyRight: In America vince YouTube



Dall'articolo del Fatto Quotidiano del 25 giugno 2010:

L’annosa questione della sconfinata mole di video protetti dal copyright che finiscono su YouTube, ieri è arriva a un punto di svolta. Il portale video di proprietà Google ha vinto una maxi causa intestata da Viacom, il colosso dell’entartainment proprietario di Mtv, degli studi Paramount e della DreamWorks (l’azienda specializzata in film di animazione che ha realizzato anche Shrek). Viacom aveva chiesto a YouTube un miliardo di dollari: l’accusa era quella di aver violato il copyright dei video finiti online e di averli pubblicati consapevolmente pur conoscendone la provenienza “pirata”.
Il tribunale di New York ha accertato invece che alcuni dei video contestati erano stati passato sottobanco a YouTube dagli stessi dipendenti ViaCom. Inoltre, la corte si appellata al Digital Millenium Copyright Act per assolvere BigG.

La legge, voluta nel 1996 da Bill Clinton (e imitata dall’Unione Europea con un’apposita direttiva) rende illegali tecnologie, strumenti o servizi che possono essere usati per aggirare il copyright; ma al contempo stabilisce che le società non hanno responsabilità se, una volta avvertite di violazioni dai titolari dei diritti, provvedono immediatamente a rimuovere contenuti oggetto di contenzioso. Su questo fronte YouTube si è attrezzata da tempo fornendo a tv e società di produzione strumenti per gestire il destino di video protetti (le aziende possono decidere anche di lasciarli online e di “monetizzarli” con la pubblicità). “Questa sentenza costituisce una vittoria importante non solo per noi – ha dichiarato il vicepresidente Goolge Kent Walker – ma anche per i miliardi di persone nel mondo che usano il web per comunicare e condividere esperienze”. Viacom, invece, non ci sta ed ha già annunciato che presenterà ricorso.

Chissà se il verdetto dei giudici sarà lo stesso anche in Italia...

da Il Corriere della Sera 1 Agosto 2008:

Mediaset chiede 500 milioni a YouTube e Google per illecita diffusione filmati «Senza contare la pubblicità». Quantificati in 315.672 i giorni di visione perduti da parte del gruppo tv italiano

MILANO - Cinquecento milion di euro. È la cifra che Mediaset chiede a Google e YouTube «per illecita diffusione e sfruttamento commerciale di file audio-video di proprietà delle società del gruppo».

LA CITAZIONE - I legali di Mediaset hanno depositato presso il tribunale Civile di Roma un atto di citazione nei confronti dei due giganti americani di internet.

I NUMERI - Secondo quanto riferito da Mediaset «alla data del 10 giugno 2008, dalla rilevazione a campione effettuata da Mediaset sono stati infatti individuati sul sito YouTube almeno 4.643 filmati di nostra proprietà, pari a oltre 325 ore di materiale emesso senza possedere i diritti. Alla luce dei contatti rilevati e vista la quantità dei documenti presenti illecitamente sul sito - prosegue la nota - è possibile stabilire che le tre reti televisive italiane del gruppo abbiano perduto ben 315.672 giornate di visione da parte dei telespettatori». Ai 500 milioni di euro per il danno emergente, precisa Mediaset, «bisognerà aggiungere le perdite subite per la mancata vendita di spazi pubblicitari sui programmi illecitamente diffusi in rete».

Staremo a vedere...

giovedì 24 giugno 2010

La mappa del web....

Quando a lezione il prof. ci spiegava quanto fosse importante la mappa dei siti, la mia mente malata si stava in realtà chiedendo se ci fosse una "mappa di internet". Sul momento ho pensato che fosse una cosa impossibile raffigurare una quantità così smisurata di siti su di una superficie a due dimensioni. E invece è bastato cercare un pò (neanche tanto) sull'onniveggente Google, ed ecco che salta fuori qualcosa di interessante.

Da Cablogrammi di Massimo Russo del 8 Aprile 2009:

Information Architects, agenzia di marketing digitale nippo-svizzera che fa capo a Oliver Reichenstein e Matt Gerber, ha pubblicato la nuova versione della sua mappa del web, che rappresenta linee e snodi più importanti della rete come si trattasse di una cartina della metropolitana. Il lavoro è molto bello e pieno di idee. Se ne può scaricare una bozza finale, aperta a revisione da parte degli utenti. Per l’Italia sono presenti Repubblica, Corriere e il blog di Beppe Grillo.



Ed ancora più recente, è la mappa che raffigura i 140 utilizzatori di Twitter più influenti.



In attesa della prima mappa tridimensionale date un'occhiata a queste con una risoluzione decente...

WEB TREND MAP 4

COSMIC 140

Intervista a Clay Shirky




Ormai è un luogo comune: il nuovo ecosistema di media che usiamo per collaborare online – wiki, blog, social network, e chi più ne ha più ne metta – sta cambiando il modo di produrre sapere e conoscenza, di aggregare cultura, di fare società e perché no anche di produrre merci. Un intero filone di studiosi e tecnologi liberali, in gran parte nordamericani, insiste da anni sul contenuto intrinseco di democratizzazione di questi nuovi strumenti che permettono a chiunque disponga di un computer e di una connessione internet di partecipare al dibattito pubblico o di aggregarsi a progetti collettivi.

Il nuovo libro di Clay Shirky si concentra in particolare, come dice il sottotitolo, sulla possibilità di aggregare forze collettive senza bisogno di una delle classiche forme di organizzazione gerarchica che conosciamo nel mondo offline: partiti, associazioni, istituzioni. Nella pagine del Chip&Salsa di oggi trovate un sacco di esempi di organizzazioni dal basso, nate nella rete ma che hanno avuto un effetto sensibile sulle vite delle persone, sulla loro capacità di incidere sul mondo.

Tuttavia, Shirky non si schiera completamente con gli entusiasti a tutti i costi. Infatti il rapporto tra la massa degli utenti delle piattaforme di cooperazione online e le istituzioni classiche non è poi così indolore come alcuni lo rappresentano. Il web viene usato anche in modo gerarchico, i suoi utenti sfruttati per raggiungere uno scopo deciso dall’alto, e le forme organizzative democratiche possono venirne colpite. Gli abbiamo chiesto proprio di spiegarci meglio i punti deboli del web come strumento di organizzazione.

Sottolinei come le nuove forme di cooperazione online siano un cambiamento sociale importante prodotto dalle tecnologie del web. Ma non dovremmo concentrarci su quello per cui collaboriamo?
Le tecnologie sono vuote se non pensiamo ai valori e ai poteri che le muovono.
Ci vuole un sacco di tempo per capire come usare le nuove tecnologie. Prendiamo le forme di stampa come i giornali o i romanzi come se fossero cose garantite, assodate, ma entrambe queste forme di comunicazione sono state inventate, e sono state inventate da persone che non sapevano quello che stavano facendo. Chiedere che ci concentriamo sugli usi finali di uno strumento che è ancora all’inizio della sua vita è una ricetta per non fare altro che copiare le vecchie modalità e contenuti nel nuovo media. Il modo per far sì che il web funzioni è usarlo per tutte le cose che vogliamo, siano serie o stupide, fino a quando non capiremo cosa funziona e cosa no.

Qual è la relazione tra cooperazione e istituzioni? Molti critici dicono che istituzioni come le imprese o i partiti politici stanno sfruttando le istanze di partecipazione sulla rete per raggiungere i loro obiettivi economici o politici.
Certo, ma questo è vero anche per la stampa, la tv o la radio. È vero per i libri e per le riviste. È vero per i media in generale. La gente usa gli altri per ogni tipo di cose e obiettivi, e gli scontri cui abbiamo assistito e stiamo assistendo all’interno della rete sono un po’ più turbolenti e democratici di quelli che vediamo per esempio nei giornali, dove i lettori non possono rispondere. Anzi, non possono nemmeno parlarsi l’un l’altro.

I processi di democratizzazione sono abbastanza forti da resistere a questo tipo di appropriazione del loro valore?
Credo di sì… nemmeno le nostre attuali culture democratiche hanno resistito completamente a questa appropriazione, ma molte restano in buona salute. Questa è proprio la stessa sfida, che si ripete in forme diverse e nuove ma stavolta avendo a disposizione un media calibrato molto meglio sulle conversazione tra cittadini rispetto a qualsiasi altro media che abbiamo usato nella storia.

Ecco, secondo te questi processi che avvengono sui media sono indipendenti dai processi di democrazia che avvengono nel mondo? Insomma, esiste il cambiamento sociale online senza un cambiamento nella vita “reale”?
Come diceva Wittgenstein, “Il mondo è tutto ciò che accade”. Una delle cose che sono reali nel mondo reale è proprio internet: è una questione di ibridazione. Per fare un esempio italiano, il movimento Addio Pizzo, che lotta contro il pagamento del pizzo alle mafie, è in parte mediato e in parte agisce nel mondo fisico, e sarebbe meno efficace se una di queste metà non ci fosse.

Qual è la differenza tra condivisione e collaborazione?Credi che la collaborazione stia crescendo anche al di fuori dei campi in cui abbiamo già assistito alla sua crescita, come il web?
Succede sempre più spesso che semplici forme di condivisione portino a forme molto più complesse di collaborazione. Per fare un esempio, i 40.000 studenti delle superiori che hanno fatto una manifestazione politica a Los Angeles si conoscevano tutti a vicenda grazie a MySpace. Hanno cominciato condividendo musica e gossip, e sono arrivati ad attivarsi diventando un movimento politico. E sì, certo, questo schema si sta riproducendo ovunque ci siano dei gruppi che si mettono insieme per fare delle cose.

Quali sono i passi da fare per costruire una comunità reale partendo da uno strumento tecnico come un sito web? Possiamo riconoscere dei segni che ci dicono che quella comunità sta diventando un vero movimento organizzato?
Non c’è una ricetta. Le cose che hanno funzionato in una comunità potenziale falliranno in un altro caso, dato che gli strumenti da soli non sono abbastanza per creare cultura. Possiamo dire che una comunità si sta formando quando i suoi membri cominciano a litigare tra di loro, e che è del tutto formata quando la gente comincia a minacciare di andarsene.

Credi che le reti senza organizzazione non sviluppino strutture gerarchiche? In un vecchio saggio hai parlato di ineguaglianza nei blog e nei forum.
Spesso sviluppano strutture gerarchiche. Il vero cambiamento è che non sviluppano strutture “manageriali”. Per esempio, Guido van Rossum è il leader universalmente riconosciuto del linguaggio di programmazione Python, che è stato creato da lui. Infatti, il suo titolo all’interno della comunità di programmatori è BDFL, Benevolent Dictator For Life (dittatore benevolo a vita)
Tuttavia, dato che Python è un progetto open source, gli sviluppatori che lo migliorano non lavorano per lui. Se dovesse diventare tirannico, che so, oppure insistere su u piano di azione che danneggerebbe Python, quegli stessi programmatori sono liberi di prendere tutto il loro lavoro e riutilizzarlo ovunque senza di lui. Quindi qui c’è gerarchia, ma è un tipo di gerarchia che richiede un grado di rispetto reciproco più i classici contratti di lavoro.

Senza strumenti organizzati, il cyberpopulismo può prevalere. Questa è una classica critica contro il web collaborativo, cosa ne pensi?
Come scrivo nel libro, non si tratta di un semplice rimpiazzamento. Le organizzazioni restano essenziali per diversi motivi. Piuttosto, le organizzazioni hanno perduto il loro monopolio sull’azione organizzata; ma in luoghi dove svolgono meglio queste funzioni, come per esempio gestire un ospedale, continueranno a farlo. In casi in cui un gruppo di persone può fare cose senza gerarchie e organizzazioni, come nel caso della creazione di Wikipedia, potranno farle.
In generale mi sembra che gli orrori del populismo siano presenti in modo più vivido nelle elite politiche che vogliono mantenere un alto livello di privilegi. Dovremmo preferire forme di azione più rappresentative.

Gli esempi che fai nel libro sembrano molto efficacy nel produrre critiche e proteste. Ma sono utili anche per produrre nuove idee? Non c’è un gap tra la rete come strumento organizzativo e come luogo per creare nuove idee?
Questo per me potrebbe essere il prossimo grande cambiamento. Gran parte delle azioni del mondo reale che vengono coordinate con i social media oggi vanno nella direzione della protesta a breve termine, mentre nel campo della creazione di contenuti abbiamo enorme creatività a lungo termine per mano di gruppi giganteschi (per esempio Python o Linux).
Parte della differenza sta nel fatto che la gente che crea contenuti è aiutata dall’open source e dalle licenza Creative Commons. Io credo che vedremo un sacco di sperimentazione con “licenze per l’azione collettiva”, che saranno forme alternative di incorporare i contenuti. In questo modo avremo forme di associazione native della rete che si sposteranno dal modello “aggregatore di critiche” verso forme a lungo termine e più costruttive di lavorare in modo cooperativo.

È questo il trend principale che vedi per il futuro?
Il trend più importante è che non c’è alcun trend principale. Quando la gente pensa al futuro, spesso pensa che sarà concettualmente più semplice del presente. Ma questo non accade mai.

Intervista tratta da "Il Manifesto" del 21 marzo 2009

Link all'articolo

Chi è Clay Shirky?

Il sito di Clay Shirky

martedì 22 giugno 2010

I lati oscuri di Mountain View




Secondo i francesi del CNIL, ci sarebbero anche informazioni sensibili tra quelle raccolte dalle automobili che fotografano le strade del mondo per il servizio di mappe dell'azienda americana. Tra i frammenti di informazione memorizzati dalle vetture che fotografano le strade di tutto il mondo per conto dell'azienda americana, ci sarebbero anche password, frammenti di e-mail e altri dati privati. L'agenzia di sicurezza francese CNIL ha rilevato la presenza di queste informazioni esaminando i dati raccolti da Google. Gli elementi sensibili sarebbero stati "pescati a strascico" mentre le Google-car, le auto con la speciale macchina fotografica che realizza le immagini delle mappe 3D, assorbivano informazioni sulle reti wireless locali perché poi Google potesse sviluppare dei servizi basati sulla geolocalizzazione.

Il CNIL è una delle organizzazioni che nel mondo hanno chiesto a Google copia dei dati raccolti in giro per il mondo e sta valutando se avviare azioni legali contro l'azienda. I responsabili del motore di ricerca, pur ammettendo la raccolta "non intenzionale", hanno sempre dichiarato che i dati intercettati non sono stati utilizzati in alcun modo. Recentemente, anche il garante della privacy italiano ha aperto un'istruttoria 2 su Street View, per valutare se e come procedere nei confronti dell'azienda.

Esaminando l'imponente mole di informazioni fornite da Mountain View, il CNIL ha dichiarato che all'esame dell'agenzia, parte di questi dati contiene dati sensibili. Nello specifico, dichiara Alex Turk, direttore dell'agenzia, "informazioni che comprendono codici bancari e dati medici, password e stralci di messaggi e-mail". Insomma il massimo della sensibilità dei dati.

Negli Usa, intanto, le Google-car sono all'attenzione del Congresso, e sono già diverse le azioni legali intraprese dai singoli stati contro Mountain View. Il Connecticut in particolare guida un'inziativa multi-stato, volta a fare luce sui comportamenti dell'azienda. Richard Blumenthal, senatore locale, denuncia l'invasione nella privacy personale di Google: "Street View non può significare visione completa", dichiara Blumenthal. "Come non può significare la possibilità di entrare nelle reti private dei cittadini e risucchiare dati e informazioni personali.

Gli individui hanno diritto di sapere che tipo di dati Google ha raccolto, e perché Google ha intercettato queste informazioni". L'invito è esplicito: Google deve fare chiarezza su vari aspetti della vicenda rimasti oscuri, tra cui il motivo per cui ha salvato nei propri archivi informazioni che sarebbero state, nelle parole dell'azienda, raccolte non intenzionalmente.

L'azienda risponde alle accuse di violazione, anzitutto dando completa disponibilità alla cancellazione dei dati nel momento in cui questa venisse richiesta. "Stiamo lavorando insieme alle autorità competenti in ogni paese", dichiara un portavoce di Mountain View, "per risolvere ogni tipo di questione che si dovesse porre. Il nostro obiettivo è eliminare i dati che le agenzia di sicurezza locali riterranno che non avremmo dovuto raccogliere".

La scoperta di informazioni private all'interno delle ricerche di Google ha provocato la pronta risposta di diversi paesi, tra istruttorie e valutazioni di azione civile. Tra i paesi coinvolti anche l'Italia, accanto a Germania, Spagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda.

I veicoli di Street View continuano a girare e fotografare il mondo ma l'azienda ha già interrotto la raccolta dei dati relativi alle reti wireless. Eric Schmidt, CEO di Google ha più volte dichiarato che l'azienda ha acquisito questi dati senza alcuna intenzione malevola, secondo il motto di Mountain View che è "Don't be evil", non siate cattivi. E soprattutto che le informazioni sensibili sono finite nelle maglie di Google in modo accidentale.

http://www.repubblica.it/tecnologia/2010/06/22/news/google_street_dati_sensibili-5052994/

lunedì 21 giugno 2010

10 Ways to a killer blog

Da Mr.Scoble qualche consiglio per migliorare il vostro blog.





http://www.slideshare.net/yizmo/10-ways-to-a-killer-blog

Luca Telese su internet e futuro dell'informazione

Vi propongo l'intervento di Luca Telese, giornalista del Fatto Quotidiano, alla trasmissione IoReporter in onda su SkyTg24. IoReporter è uno spazio informativo dedicato a ciò che avviene sulla rete, informazione, tecnica e curiosità.



http://www.youtube.com/user/IoReporterSkyTg

giovedì 17 giugno 2010

Newspass



Come "qualcuno" aveva previsto, iniziano a farsi vedere i primi tentativi di contenuti a pagamento legati ai nuovi supporti.

Da Repubblica.it:

Entro la fine dell'anno Google lancerà un sistema di pagamento integrato con la ricerca che consentirà agli utenti di acquistare con un solo click e agli editori di utilizzare un'infrastruttura unica per web, mobile e tablet per monetizzare i propri contenuti. Newspass, questo il nome della piattaforma, è già in fase di test, e Google sta contattando le imprese editoriali per vagliare la loro disponibilità a partecipare alla sperimentazione.

E' un nuovo passo nella strategia di attenzione da parte della società nei confronti dei produttori di contenuti, dopo le tensioni dei mesi scorsi, sfociate in Italia anche in un ricorso all'autorità Antitrust da parte della Fieg, l'organismo che riunisce gli editori di giornali, che aveva accusato il motore di ricerca di abuso di posizione dominante. "Da parte nostra", conferma ora Henrique De Castro, vicepresidente di Google per i global media, "c'è la volontà di diventare partner", e non avversari.

I dettagli tecnici del funzionamento di Newspass non sono ancora stati resi noti, ma qualcosa inizia a filtrare. Google già da qualche tempo ha cominciato a indicizzare anche i contenuti resi disponibili su web sotto chiave o, come si dice in gergo, dietro paywall. Ora a questa parte della piattaforma verrà affiancato checkout, il sistema di fatturazione già realizzato dalla società di Mountain View. In sostanza gli utenti potranno registrarsi su Google e fornire le proprie credenziali di addebito, come ad esempio il numero di carta di credito. Quando poi effettueranno una ricerca su web, nella pagina dei risultati compariranno anche i contenuti a pagamento, identificati con un simbolo ad hoc. Con un click sarà possibile selezionarli e decidere di acquistare.

Il sistema dunque avrà al proprio interno anche le funzioni di chiave universale, o di identificatore unico del web, entrando così in diretta concorrenza con Facebook, che attraverso Connect già da qualche tempo ha messo a disposizione di tutti gli utenti e dei siti la possibilità di integrare un single sign on, un passaporto globale con una sola password. Newspass sarà accessibile via computer ma anche attraverso piattaforme differenti come telefoni cellulari, iPad e tablet pc di nuova generazione, e si adatterà a qualsiasi metodo di pagamento scelto dai proprietari dei siti, sia che si tratti di sistemi a consumo, di micropagamenti o di abbonamenti. Quanto ai contenuti, si potrà trattare di testi, video, audio, fotografie.

A prevenire il pericolo di nuove accuse di egemonia, Google ha già fatto sapere ad alcuni editori di essere disponibile a condividere con le imprese che accetteranno di partecipare al sistema tutte le informazioni che deriveranno dal suo utilizzo: anche se i processi di autenticazione, assistenza e fatturazione saranno gestiti da Mountain View, i dati sul traffico e profili degli utenti saranno messi in comune con i partner. E, anche se il costo per l'uso della piattaforma non è ancora stato reso noto, Google lascia intendere che la maggior parte del ricavo rimarrà ai produttori di contenuti.

Divenuta un vero e proprio paradigma della conoscenza su web per la maggior parte degli utenti, la società fondata solo 12 anni fa da Sergey Brin e Larry Page si è poi trasformata in un colosso della pubblicità su internet, con un ricavo annuo pari al prodotto interno lordo della Costa D'Avorio. Ora per Google sembra arrivato il momento di un nuovo cambio di identità: da strumento di ricerca a banca e passaporto del web.

http://www.repubblica.it/tecnologia/2010/06/17/news/google_pay-4932905