Il Blog di Andrea

Blog relativo al corso di Informatica Applicata al Giornalismo dell'Università di Parma

lunedì 28 giugno 2010

"Mi piace essere il campione italiano della bugia"




Pubblico questa interessante intervista presa dall'ottimo sito Italia Dall'estero, a Tommaso DeBenedetti, giornalista free lance salito alle cronache per essersi inventato interviste a personaggi di fama internazionale come scrittori e importanti premi Nobel. Da questa intervista realizzata dal quotidiano spagnolo El Paìs emerge un quadro abbastanza inquietante del sistema editoriale italiano.

P.S. Non mi ricordo di aver visto pubblicate su quotidiani italiani interviste all'individuo in questione dopo che il fatto era uscito allo scoperto.

[El País]

Non c’erano solo premi Nobel per la letteratura, illustri scrittori e autori di best seller. Anche il Dalai Lama, Lech Walesa, Michail Gorbaciov, Elie Wiesel, Noam Chomsky e Joseph Ratzinger, poco prima che iniziasse nel 2005 il conclave che lo elesse Papa, sono stati intervistati dalla fantasia di Tommaso Debenedetti.

La lista delle interviste false del freelance italiano continua a crescere. L’ufficio di rassegna stampa del Parlamento ha pubblicato un archivio su internet, e ci sono già 79 pezzi, anche se non tutti sono interviste, visto che Debenedetti è stato anche per alcuni mesi vaticanista dello scomparso L’Indipendente.

Nella lista si legge che una delle sue ultime vittime è stato il drammaturgo Derek Walcott. Debenedetti lo ha presentato terrorizzato all’altro capo del telefono il giorno del terremoto ad Haiti. Poco dopo Philip Roth ha scoperto il grande imbroglio. La giornalista di Repubblica Paola Zanuttini gli ha chiesto della sua presunta perdita di fiducia in Obama, e Roth ha negato di averlo mai detto, di aver parlato con Libero e di conoscere Debenedetti.

Ora l’inventore di interviste ha deciso di concederne una a questo giornale. Lo aveva già fatto con Malcom Pagani, giornalista de Il Fatto Quotidiano. All’epoca aveva mantenuto la versione secondo cui alcune interviste erano reali e che avrebbe avuto anche i nastri che lo provavano. Adesso Debenedetti confessa che era tutto falso. O, più esattamente, un gioco. “La mia idea era di essere un giornalista di cultura serio e autorevole, ma questo in Italia è impossibile”, spiega. “L’informazione in questo paese è basata sulla falsificazione. Tutto passa finché è aderente alla linea editoriale, finché quello che parla è uno dei nostri. Io mi sono semplicemente prestato a questo gioco per poter pubblicare, e ho giocato fino in fondo per denunciare lo stato delle cose”.

Nato a Roma nel 1969, sposato e padre di due figli, insegnante di italiano e storia in un istituto pubblico della capitale, figlio e nipote di illustri critici letterari (Antonio e Giacomo), Debenedetti si dichiara “soddisfatto” del lavoro fatto. “Mi piace essere il campione italiano della bugia. Credo di aver inventato un genere nuovo e spero di poter pubblicare altri falsi nel mio web, e la rassegna in un libro. Naturalmente con prefazione di Philip Roth”.

Dopo averci dato appuntamento nella rumorosa piazza Barberini, Debenedetti arriva puntuale (anche se il suo orologio segna un’ora in meno) insieme al suo bebè di tre mesi. Mostra un atteggiamento cordiale e intelligente, porta una kippah sul capo e assomiglia un po’ all’attore Roberto Benigni. Per un’ora l’impostore racconta la sua verità. Senza rancore e con tanto humor quanto presenza di spirito.

Domanda. Lei è o no giornalista?
Risposta. Ho studiato storia e letteratura italiana, e dopo ho iniziato a lavorare come giornalista freelance. Ho il tesserino di pubblicista (collaboratore di stampa) dal 1998. Quello di giornalista non l’ho potuto ottenere perché in Italia bisogna avere due anni consecutivi di contratto con un giornale. Nel 1994 ho iniziato a scrivere critiche e interviste a scrittori italiani.

D. Vere?
R. Assolutamente. Le facevo per telefono e anche di persona. Ne feci una alla scrittrice Dacia Maraini e ad altri autori locali. Dopo è successa una cosa: improvvisamente ho capito che qualcosa non funzionava nella stampa italiana.

D. Cioè?
R. Io volevo lavorare onestamente come redattore di cultura, ma non avevo spazio. Andavo alle conferenze stampa, ma nessuno mi concedeva interviste. Offrivo critiche e rassegne di spettacoli, ma mi rispondevano sempre “questo lo copriamo già con i nostri redattori”. E così cambiai metodo.

D. E ha iniziato con i falsi?
R. La tecnica consisteva nel rivolgersi a piccoli giornali di provincia. Non pagavano molto, ma compravano tutto.

D. Quando ha scritto il primo?
R. Nel 2000, mi pare fosse Gore Vidal. Era accessibile, presentava il suo libro Palinsesto, parla italiano e viveva a Ravello, vicino a Napoli… Mi sono detto “la faccio”, l’ho fatta ed è uscita ne La Nazione (di Firenze), Il Giorno (di Milano) e Il Resto del Carlino (varie provincie).

D. Ma l’ha fatta davvero?
R. No, Gore Vidal non riceveva nessuno. Ma l’intervista piacque e il capo della redazione cultura de La Nazione mi disse: “Adesso non possiamo abbassarci di livello”. Iniziai a offrirne ad altri giornali. Il Mattino di Napoli me ne comprò diverse. Mi resi conto che quello che interessava non era la cultura ma i grandi nomi, lo spettacolo, le stelle. Non pagavano quasi niente, ma io volevo scrivere e non mi interessavano i soldi. Così ho iniziato a giocare. La verità è che mi sono divertito moltissimo durante questi dieci anni.

D. Vivendo di questo imbroglio…
R. Sì. Era appassionante. Il mattino ero insegnante, nel pomeriggio parlavo con gente come Arthur Miller, Roth, Gorbachov o il Papa. Li facevo raccontare la loro vita intera e i pezzi si pubblicavano, a volte mettevano un richiamo in prima pagina e questo soddisfaceva la mia vanità. Anche se mi pagavano solo 30 euro, a volte niente, e non mi ringraziavano mai per le mie esclusive. Questo dimostra che era tutto un gioco. Tutti lo sapevano. Solo che recitavano come se non fossero state invenzioni: “Abbiamo lo scoop? L’esclusiva? La diamo e se ci scoprono non è colpa nostra ma del freelance”.

D. Quindi i giornali sapevano che erano falsi?
R. Certo, ma il meccanismo gli conveniva. Tutti sanno che gli autori danno interviste per promuovere i loro libri. Le mie interviste andavano più in là, erano quasi sempre politiche. Gli davo un orientamento di destra. Mi divertiva e sapevo che quei giornali volevano quello. “Sarebbe bene che parlasse male di Obama”, “Fallo parlar bene di Berlusconi”. Io obbedivo.

D. Alcuni blogger italiani dicono che ha ordito un complotto politico a favore di Berlusconi, facendo sembrare di destra gente di sinistra.
R. La destra ha un gran complesso di inferiorità culturale e allo stesso tempo si impaurisce di fronte ai grandi nomi. Io sono contento di diffondere questo messaggio. L’Italia è un paese comico, fra l’assurdo di Ionesco e i sogni di Calderón.

D. E Derek Walcott terrorizzato il giorno del terremoto di Haiti?
R. Chi poteva pensare che fosse la verità? Un freelance italiano lo chiama a Santa Lucia, racconta che ha sentito il tremore e che ha dovuto mettersi sotto il tavolo. Parlo dell’Omero dei Caraibi che si dispera per Haiti. Quel giorno mi hanno chiamato da La Nazione e mi hanno detto “Grazie, dottor Debenedetti, è la notizia del giorno”. Un microscopico giornale di provincia che ha questa esclusiva mondiale? E non le sembra strano?

D. Ha anche ingannato giornali nazionali, come Libero.
R. Con La Repubblica, Il Corriere o La Stampa non ho provato, perché sapevo che non avrebbe funzionato. Loro verificano, hanno le capacità per farlo. Decisi di provare con Libero per la sua fedeltà a Berlusconi. Chiamai il capo della redazione cultura per offrirgli John Le Carré. L’uomo ha fatto le sue chiamate, vai a sapere a chi, e mi dice di sì. Glielo mando e lo pubblicano. Dopo gli vendo Roth. Le Carrè scrive della guerra fredda, di spie, di cose così; Roth è un uomo di sinistra. Questo è un dilemma per Libero. Chiedergli di parlare di Berlusconi è troppo? Mi dissero: “Fagli dire qualcosa di forte contro i Nobel, ma che non dica niente contro la nostra linea editoriale”.

D. Ha fatto nove interviste allo scrittore israeliano Abraham Yeoshua e cinque a Roth. Perché erano i suoi favoriti?
R. Yeoshua perché Israele e il Medio Oriente in Italia si vendono molto bene. E Roth perché mi sono inventato il suo appoggio a Obama prima ancora che glielo desse, quando non si era ancora presentato alle primarie. Quella intervista venne citata dal Messaggero. Così ho pensato che non sarebbe sembrato strano che dopo un po’ di tempo si fosse mostrato deluso da Obama. Di fatto a nessuno è parso strano, tranne che a lui stesso e alla giornalista di Repubblica che glielo ha domandato.

D. Dieci anni di mitomania sono molti. Nessuno se ne è accorto prima?
R. Nel 2006, prima delle elezioni, ho fatto dire a John Le Carrè che avrebbe votato Berlusconi. L’intervista falsa venne citata dal Corriere, Le Carré si arrabbiò molto e smentì su The Guardian. La Repubblica riprese la notizia, ma nessuno ci fece caso. Fu un primo avviso, ma non accadde nulla.

D. Non temeva di essere scoperto e querelato?
R. Io mi limitavo a continuare questo gioco comico e tragico insieme. La falsificazione e il settarismo sono gli elementi di base dell’informazione italiana. Soprattutto nella stampa berlusconiana, ma non solo. Tutto si fonda su Berlusconi. O sei amico o nemico. Le notizie, le interviste, le dichiarazioni e la censura si decidono con questo criterio. È un sistema tendenzioso che colpisce per l’assenza di controllo. Se fossi un freelance spagnolo e chiamassi questi giornali offrendo un’intervista con Almudena Grandes, la pubblicherebbero senza controllo.

D. A proposito, quali sono state le sue vittime latinoamericane e spagnole?
R. Qualche anno fa ho intervistato Mario Vargas Llosa, dopo averlo visto ad una conferenza a Roma, Laura Perez Esquivel e Vazquez Montalban. Questa intervista è citata in un sito su Andrea Camilleri perché l’ho fatto parlare molto bene di lui. Quando tutto è venuto alla luce ero sul punto di fare una grande intervista a Garcia Marquez in cui gli avrei fatto rinnegare Obama.

D. Ha fatto tutto questo per una specie di vendetta contro la sua famiglia?
R. Lei ha parlato di Freud nell’articolo che ha scritto su di me. Può darsi che c’entri qualcosa, anche se credo che la relazione con mio padre non abbia influito. Lui non mi ha aiutato a diventare giornalista (Antonio Debenedetti è una firma de Il Corriere della Sera), ma la nostra relazione si è rotta per motivi strettamente familiari. So che è molto dispiaciuto e questo mi turba perché provo affetto per lui. Mio nonno Giacomo è sempre stato un modello per me, era il mio grande punto di riferimento letterario. Mi sarebbe piaciuto essere come lui. Forse questo è stato un modo freudiano per evitare il confronto. Ma era anche l’unica maniera di farlo essendo pubblicista. Era come farmi un giornale da solo, ma sotto gli occhi di tutti; facevo editoriali politici sotto forma di interviste, anche se molte volte non riflettevano le mie idee; firmavo la critica letteraria che non mi lasciavano firmare.

D. Quali sono stati i suoi migliori colpi?
R. Mi ha divertito che un’intervista del 2003 con Nagib Mahfuz, autore egiziano, sia stata ripubblicata da France Soir e da vari giornali egiziani senza che nessuno se ne rendesse conto. Mi ha divertito dare ai gatti di Banana Yoshimoto i nomi dei miei gatti, Dada e Kiko. Mi ha divertito moltissimo intervistare Ratzinger poco prima del conclave indovinando che fosse papabile, e che L’Independente abbia pubblicato un’altra volta il pezzo due giorni dopo come “l’ultima intervista prima di diventare Papa”.

D. Che tecnica usava per imitale il linguaggio? Leggeva libri, copiava da altre interviste?
R. Leggevo i libri e cercavo di captare la loro forma di espressione e il loro mondo. A volte inserivo dettagli dell’ambiente, Coelho, Follet, Yoshimoto, Walcott.

D. Le dispiace che alcuni scrittori abbiano detto che non si riconoscevano nelle sue interviste?
R. Questo è ciò che più mi ha dato fastidio. E che Roth abbia detto che la mia carriera è finita; lo so, ma non c’è neanche bisogno che lo dica lui, che è uno scrittore di fama mondiale. La mia carriera nei giornali probabilmente è terminata, ma il mio lavoro no. Chissà che non scriva nuove interviste sotto pseudonimo in un giornale di ampia tiratura? E creerò una pagina web dove metterò i nuovi falsi. Credo che sia un genere nuovo e mi piacerebbe pubblicare la collezione in un libro. Naturalmente con una prefazione di Roth, vedremo se vera o falsa. Mi piacerebbe anche andare a vedere Hertha Muller, farle tre o quattro domande e vedere come reagisce l’autrice vera.

D. Alcuni lettori de The New Yorker le imputano il fatto che attribuire a gente come Gunther Grass o Roth opinioni contrarie a Obama sia un atto di violenza.
R. Mi dispiace che lo dicano. A Grass ho fatto dire cose a favore degli immigrati, contro Berlusconi. Non credo di aver mai creato violenza.

D. John Grisham ha dichiarato che la querelerà.
R. Non so ancora nulla. Possono fare ciò che vogliono. Io sono stato trasparente e non ho ottenuto alcun vantaggio da questo. Non mi sono arricchito, non mi sono mai preoccupato di farmi pagare i pezzi. Una volta mia madre mi ha chiamato dicendomi che era arrivato il pagamento de La Nazione: 40 euro per tre interviste. Continuo ad essere sconosciuto, o quasi. In Italia quasi nessuno parla del mio caso perché si dovrebbe indagare sulla farsa dell’informazione.

D. Vuole approfittarne per chiedere scusa ai suoi intervistati?
R. Mi piacerebbe incontrarmi con loro. A volte mi sono sbagliato nel riflettere i loro pensieri, per fretta o per incapacità. Ne chiedo scusa. Ho visto che Roth ha detto che non lo stupirebbe che in Italia mi trasformassero in un eroe. Mi piacerebbe dirgli una cosa: “Caro Roth, lei non conosce l’Italia”. Qui diventa eroe solo chi va col vento, mai chi critica il sistema o si diverte dicendo la verità. Non sarò mai un eroe, ma continuerò a dire la verità. E so bene che questo suona strano, detto da me.

Articolo tradotto

Articolo originale

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